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A review by momotan
L'ultimo giorno di un condannato a morte by Victor Hugo
3.0
E’ un attacco alla pena di morte portato dallo scrittore francese, portato sotto forma di diario di un condannato a morte.
Non è propriamente un diario, teoricamente si tratterebbe di fogli scritti durante l’ultimo giorno di prigionia del condannato a morte, che tra le altre cose decide di scrivere ciò che prova, ciò che sente, i suoi sentimenti riguardo tutto questo.
Ecco, i sentimenti sono la parte meglio riuscita del libro.
Perchè l’immedesimazione è tanta. Certo, non sono mai stato condannato a morte ma a chi non è mai capitato di avere un pensiero angosciante, relativo a un evento imminente, che gira per la testa senza lasciare un solo attimo di pace? Di non poter pensare ad altro, per via di quel pesiero che ricompare costantemente? Di non riuscire a godere di niente che si possa fare, visto che tutto è deteriorato ai nostri occhi proprio a causa dell’approssimarsi di quell’evento?
A me, almeno, succede.
E ciò che provo in quei frangenti l’ho ritrovato pari pari in queste pagine.
E mi piace l’alternarsi degli stati d’animo. L’essere pronto ad affrontare la morte con la speranza che il suo scritto possa in futuro contribuire all’abolizione di queste condanne, e poi il riscuotersi ricordandosi che non importa ciò che accadrà in futuro, lui deve salvarsi adesso.
L’alternarsi di fiducia e sconforto, di pace e di irrequietezza.
Purtroppo però il protagonista non mi ispira alcuna simpatia.
E’ senza nome, senza volto, senza età, senza passato. Sappiamo che è giovane, che ha madre, moglie e figlioletta. Che ha commesso un delitto, che lo riconosce. Che probabilmente era particolarmente agiato, come condizione economica.
Ma il modo in cui si fa scudo della vecchia madre, della moglie debole, della figlia ancora bambina… questo è ipocrita e insopportabile. Come la dedica che fa alla figlia, quando questa non lo riconosce e si dimostra anzi spaventata da lui: che possa leggere da grande quei fogli e piangere in futuro per lui, come non ha fatto da piccola nel presente.
Si dice pentito del delitto, ma solo quando si trova costretto ad ammettere che si, era colpevole e non si poteva lamentare poi troppo.
Ho trovato molto migliore l’altro condannato, che lui incrocia quando viene portato al Palazzo di Giustizia.
Cresciuto da solo per strada, povero. Sopravvissuto a suon di furtarelli, catturato e spedito ai lavori forzati per quindici anni. E quando finalmente era stato liberato, si era ritrovato marchiato a vita come ex-galeotto, impossibilitato a trovare un lavoro per guadagnarsi onestamente da vivere. E si era dato al brigantaggio, all’omicidio… fino a venire catturato e condannato a morte.
Provo più simpatia per lui che non per il protagonista.
Lui ammette gli omicidi, e pare pronto a morire. Ha ucciso sapendo di poter uccidere.
Il protagonista invece ha ucciso, questo si sa, ma non pare pronto a venire ucciso. Darei dei giudizi ben poco lusinghieri su di lui, ma non sapendo niente della sua storia o del suo movente non mi azzardo: motivazioni e cause possono essere le più disparatee, cambiando completamente la situazione.
Ho trovato interessante come già allora i condannati venissero trattati bene e fossero tenuti in vita a tutti i costi fino all’esecuzione; o come i processi avessero tempi lunghissimi, o i direttori delle carceri tentassero di assicurarsi che il condannato si fosse trovato bene da loro, che non avesse lamentele da muovere.
Pensavo che queste idiozie fossero frutto dell’epoca moderna e invece mi sbagliavo.
Per quanto riguarda invece la tematica della pena di morte, io sono dell’idea che una persona deve essere pronta a ricevere ciò che dà, se ammazzi qualcuno devi essere pronto anche a morire. Ho ritrovato il concetto recentemente in Code Geass, in una frase che usa spesso il protagonista: può sparare solo chi è pronto a ricevere il proiettile.
Un libro che punta sui sentimenti, e ci riesce per quanto riguarda il descrivere gli stati d’animo; riesce meno secondo me quando tenta tramite la narrazione del detenuto di mostrare la malvagità della pena di morte, visto che il condannato non fa assolutamente niente per tentare di ingraziarsi il lettore.
Non è propriamente un diario, teoricamente si tratterebbe di fogli scritti durante l’ultimo giorno di prigionia del condannato a morte, che tra le altre cose decide di scrivere ciò che prova, ciò che sente, i suoi sentimenti riguardo tutto questo.
Ecco, i sentimenti sono la parte meglio riuscita del libro.
Perchè l’immedesimazione è tanta. Certo, non sono mai stato condannato a morte ma a chi non è mai capitato di avere un pensiero angosciante, relativo a un evento imminente, che gira per la testa senza lasciare un solo attimo di pace? Di non poter pensare ad altro, per via di quel pesiero che ricompare costantemente? Di non riuscire a godere di niente che si possa fare, visto che tutto è deteriorato ai nostri occhi proprio a causa dell’approssimarsi di quell’evento?
A me, almeno, succede.
E ciò che provo in quei frangenti l’ho ritrovato pari pari in queste pagine.
E mi piace l’alternarsi degli stati d’animo. L’essere pronto ad affrontare la morte con la speranza che il suo scritto possa in futuro contribuire all’abolizione di queste condanne, e poi il riscuotersi ricordandosi che non importa ciò che accadrà in futuro, lui deve salvarsi adesso.
L’alternarsi di fiducia e sconforto, di pace e di irrequietezza.
Purtroppo però il protagonista non mi ispira alcuna simpatia.
E’ senza nome, senza volto, senza età, senza passato. Sappiamo che è giovane, che ha madre, moglie e figlioletta. Che ha commesso un delitto, che lo riconosce. Che probabilmente era particolarmente agiato, come condizione economica.
Ma il modo in cui si fa scudo della vecchia madre, della moglie debole, della figlia ancora bambina… questo è ipocrita e insopportabile. Come la dedica che fa alla figlia, quando questa non lo riconosce e si dimostra anzi spaventata da lui: che possa leggere da grande quei fogli e piangere in futuro per lui, come non ha fatto da piccola nel presente.
Si dice pentito del delitto, ma solo quando si trova costretto ad ammettere che si, era colpevole e non si poteva lamentare poi troppo.
Ho trovato molto migliore l’altro condannato, che lui incrocia quando viene portato al Palazzo di Giustizia.
Cresciuto da solo per strada, povero. Sopravvissuto a suon di furtarelli, catturato e spedito ai lavori forzati per quindici anni. E quando finalmente era stato liberato, si era ritrovato marchiato a vita come ex-galeotto, impossibilitato a trovare un lavoro per guadagnarsi onestamente da vivere. E si era dato al brigantaggio, all’omicidio… fino a venire catturato e condannato a morte.
Provo più simpatia per lui che non per il protagonista.
Lui ammette gli omicidi, e pare pronto a morire. Ha ucciso sapendo di poter uccidere.
Il protagonista invece ha ucciso, questo si sa, ma non pare pronto a venire ucciso. Darei dei giudizi ben poco lusinghieri su di lui, ma non sapendo niente della sua storia o del suo movente non mi azzardo: motivazioni e cause possono essere le più disparatee, cambiando completamente la situazione.
Ho trovato interessante come già allora i condannati venissero trattati bene e fossero tenuti in vita a tutti i costi fino all’esecuzione; o come i processi avessero tempi lunghissimi, o i direttori delle carceri tentassero di assicurarsi che il condannato si fosse trovato bene da loro, che non avesse lamentele da muovere.
Pensavo che queste idiozie fossero frutto dell’epoca moderna e invece mi sbagliavo.
Per quanto riguarda invece la tematica della pena di morte, io sono dell’idea che una persona deve essere pronta a ricevere ciò che dà, se ammazzi qualcuno devi essere pronto anche a morire. Ho ritrovato il concetto recentemente in Code Geass, in una frase che usa spesso il protagonista: può sparare solo chi è pronto a ricevere il proiettile.
Un libro che punta sui sentimenti, e ci riesce per quanto riguarda il descrivere gli stati d’animo; riesce meno secondo me quando tenta tramite la narrazione del detenuto di mostrare la malvagità della pena di morte, visto che il condannato non fa assolutamente niente per tentare di ingraziarsi il lettore.