A review by e_woodhouse
Daniel Deronda by George Eliot

3.0

La storia dell'ultimo romanzo di George Eliot è quella di Gwendolen Harleth e dell’incontro con Daniel Deronda, e dell’impatto che avranno su di lei la personalità e la moralità di lui.

All’inizio del romanzo Gwendolen è una ventenne egocentrica che ama avere l’attenzione degli altri su di sé ed essere adulata, ma che in realtà è diretta verso un solo obiettivo: essere libera. È convinta che, per una come lei - ragazza vittoriana di buona famiglia - il matrimonio sia il modo più veloce per ottenere la libertà, che per lei equivale a indipendenza economica, fuga dalla noia, e non dover sottostare al giudizio altrui. Ad un certo punto del libro si prospetta la possibilità di diventare istitutrice e, più che il dover lavorare in sé, ciò che disgusta Gwendolen è l’idea di avere qualcuno che le dice cosa fare, e che la giudica per come lo fa.
Il matrimonio nell’Inghilterra dell’Ottocento non era certo un’istituzione egualitaria, ma Gwendolen, che in tutta la sua vita è stata capace di piegare sempre alla propria volontà quella della madre (che pure ama), crede di poter fare lo stesso col futuro marito, chiunque esso sia: questo la porta a sposare l’uomo sbagliato, Hanleigh Grandcourt, il quale dimostrerà una volontà di ferro, unita a una freddezza che è resa palese sin da subito, non solo nei gesti e nelle parole, ma anche nei numerosi paragoni a vari rettili, e soprattutto a una crudeltà che porta Gwen all’infelicità e al desiderio di fuggire o di, agli estremi, ucciderlo.

Il suo unico appiglio è Daniel, incontrato per caso durante un viaggio in Europa, che per lei sin da subito costituisce una sorta di bussola morale alla quale farà appello durante tutto il romanzo. 
Dal canto suo Daniel è occupato dal proprio percorso, che parte dal desiderio di scoprire le proprie origini e lo porta a capire cosa sarà del futuro, come impiegare la propria vita: cresciuto come un gentiluomo inglese da Sir Hugo Mallinger, gli è stato detto di essere orfano, ma sospetta di esserne figlio illegittimo. Per caso viene a contatto con la comunità ebrea di Londra, e in particolare un fratello e una sorella, Mordecai e Mirah, che lo spingeranno sempre più verso la religione ebraica.

La figura di Daniel nel romanzo assume quasi da subito sfaccettature religiose: sia Gwen che il personaggio di Mordecai lo vedono come una sorta di profeta che deve indicare la via, nel primo caso la via personale per essere una persona migliore, nel secondo quella per il popolo ebreo, che secondo Mordecai risiede nelle idee sioniste e nella creazione di una patria che possa accogliere gli ebrei dispersi per il mondo.

L’urgenza di queste idee viene mostrata in modo quasi brutale, agli occhi di una lettrice del ventunesimo secolo, attraverso i pregiudizi dei personaggi inglesi (tutti di ottimo stock e spesso con cognomi francesi a ricordare la venuta degli avi con il Conquistatore), che sono diffidenti, e a volte anche disgustati dall’idea di dover avere a che fare con i personaggi ebrei: anche quando una famiglia di madre e quattro figli aiuta e ospita Mirah in un momento di estrema difficoltà, tutti più o meno esplicitamente esprimono il desiderio che lasci perdere la ricerca della famiglia che ha perso, e che si converta al cristianesimo, in modo da poterla accogliere in pieno nella loro vita e nella loro società. Mirah è adorabile, canta come un angelo, è buona e gentile, ma la sua devozione alla propria famiglia e alle proprie origini (a quella che non è solo una religione ma anche un’etnia) è un aspetto che disturba gli inglesi.

La cosa che mi è piaciuta di più è come la Eliot parli di scelta, di cambiamento, della difficoltà di seguire una strada; di come si debbano confrontare le conseguenze delle proprie scelte; di come si vive il rapporto con la fede.

E mi è piaciuto come contrappone alla società vittoriana, che si considera morale, giusta, ordinata, ma che in realtà è spietata nelle sue regole (che impongono ad esempio come un dovere lo scegliere un matrimonio senza amore per ragioni economiche e sociali, e che non prendono in considerazione la volontà della singola persona, che deve essere sempre sacrificata alla società e alla famiglia), a quella della comunità ebrea, di Londra ma anche più in generale, che è guidata da una devozione familiare che viene dall’amore, anche per Dio; ed è una contrapposizione anche per quanto riguarda il dovere inteso nei confronti della società e come ruolo pubblico, che per il padre adottivo di Daniel in particolare ha a che fare col l'essere un politico che però non faccia niente per alterare l’ordinamento sociale; e che invece per Mordecai, che è il mezzo attraverso il quale Daniel conosce la società ebrea e la sua religione, è un vero e proprio destino, da abbracciare perché più grande e più importante del singolo.

Quello che però non mi è piaciuto è che i motivi che la Eliot vuole trattare prendono il sopravvento sulla trama, che si sviluppa spesso per incontri fortuiti che si rivelano fondamentali (come a dire che il percorso di Daniel era già segnato, il che gli toglie autonomia), e sui personaggi. In particolare la più sacrificata è Gwendolen, che parte come personaggio originale, caratterizzato con tratti negativi e col quale allo stesso tempo è facilissimo empatizzare, ma che nel corso del romanzo diventa inerte: immobilizzata in un matrimonio con un uomo crudele e convinta di dover sopportare perché non ha rispettato una promessa, via via che la storia prosegue non fa niente senza chiedere a Daniel quale sia la cosa giusta. Daniel diventa una sorta di padre spirituale - peraltro riluttante - ma questo le toglie agency. Gwendolen non prende in mano la propria vita, non sa scegliere, non sa affrontare i propri dilemmi morali, ma continuamente si rivolge a Daniel per avere delle risposte che dovrebbe trovare in se stessa.

Un altro difetto abbastanza serio è la non-caratterizzazione di Mirah, che ha un ruolo fondamentale nelle scelte di Daniel ma che è un personaggio completamente passivo (che accetta tutto ciò che la vita le impone perché la sofferenza è il destino del suo popolo) e che non suscita un grande interesse.

In più il romanzo è troppo lungo: questo accade quasi sempre coi vittoriani (la famosa questione dei tre volumi), ma non era così per Middlemarch e The Mill on the Floss, i due della Eliot che avevo già letto. 
Qui le quasi settecento pagine si sentono tutte. A partire dalla metà la lettura diventa progressivamente più frustrante se non si è particolarmente interessati alla questione ebrea nell’Ottocento; si ripetono scene non necessarie che non fanno altro che ribadire concetti già compresi (come le approssimativamente trecento volte in cui Grandcourt è brutale con tutti i personaggi che gli girano attorno, o tutte quelle in cui Gwendolen prega Daniel di non abbandonarla). Le ultime cento pagine di Gwen sono particolarmente fastidiose, e la sacrificano definitivamente all’altare del Daniel versione guida spirituale che a me francamente non interessava più di tanto.